In una fotografia cupa dove i bianchi sottoesposti muoiono nel giallo uovo del logo Foxcatcher, il miliardario John Dupon (per gli amici modestamente Aquila d’oro) decide di dedicare i suoi soldi e la sua attenzione allo sport della lotta. Così costruisce il proprio team da campioni del mondo attorno al minore dei fratelli oro olimpico Schultz.
L’Aquila d’oro – dove appunto l’aquila è il simbolo di quegli USA così brillanti e aggressivi – per gli altri semplicemente Signor Dupon, è un uomo solo. Un uomo che deve lottare con l’ingombrante figura materna, un personaggio reale e profondamente umano. Una madre che oscilla tra il disgusto per ciò che anima il figlio e il freddo quanto compassionevole ricordargli i suoi limiti, le sue insufficienze, l’evidenza che tutti gli altri hanno troppo timore e troppo poco affetto da mostrargli. Il rapporto con la madre è un’ossessione: la passione di lei per i cavalli si palesa nel nome che il figlio da al suo team di lotta, Foxcatcher, appunto, che fa riferimento allo sport di caccia alla volpe, uno sport praticato dalla nobiltà con i loro purosangue. Si tratta del tentativo goffo d’essere accettato al suo freddo seno, controbilanciato dalla sua aggressiva ossessione del sogno americano che lo rende famelico e dispotico.
Dall’altra parte c’è Mark (un Channing Tatum che mi ha personalmente sorpreso) che si lascia sedurre dalla paternalità di quell’uomo ricco oltre ogni misura che vuole essergli da mentore. Il desiderio di un successo che ha già ottenuto ma che vive da eterno secondo, da eterno ‘fratello di’, lo spingono ad allontanarsi da tutto ciò in cui credeva. I cambiamenti fisici come il tingersi i capelli, l’uso di droghe e l’alcolismo si alimentano dell’insoddisfazione e dell’ombra del fallimento, stretto dal continuo confronto col fratello maggiore di cui, al contempo, desidera l’aiuto e l’affetto. Un affetto mai negato, un sostegno che si dimostra incondizionato.
In una spirale di eventi che appaiono fatali e inevitabili, sulla linea dei sentimenti dei tre personaggi principali delineati in una sceneggiatura e delle interpretazioni profonde (e in una colonna sonora da brividi), arriviamo al finale. Nella tenuta Dupon, la gabbia d’oro di vanità e autoreferenzialità, dopo la morte significativa del totem freudiano materno, non rimane che il silenzio di una vita vuota e di un cuore corrotto che più che i due lottatori voleva da questi il loro amore fraterno, il loro successo e la loro reciproca approvazione. Se non è riuscito ad averli per sé, ha però potuto strapparglieli via dal petto.